Renzo Bertoni / 2 - continuazione

E in questa allusione delle creature e degli oggetti a uno spazio "reale" si vede bene come e quanto Mammina sia impegnato nella ricerca di un suo autonomo linguaggio pittorico. E come per lui appunto la pittura raggiunga la maggiore intensità quando deborda dal quadro, nel tentativo di creare un vocabolario di forme e di simboli che oscillano tra l'angoscia della costrizione e la volontà di liberazione.
Ecco come una pittura che si direbbe completamente orientata dalla ricerca di ironiche allusioni e di fantastiche invenzioni porta la traccia di un'acuta esperienza interiore, di un conflitto. (E direi così — conoscendo l'uomo — anche per la sua aggressiva gentilezza, per le sue sottili schermaglie, per la sua schiva e solitaria dolcezza).
Le tante variazioni dello spettacolo naturale quotidiano, come il diagramma dei salti di umore, delle varianti intellettuali, dei passaggi psicologici si riflettono in una libera e fantastica geometria dove la verità e il sogno sono commisurati e nello stesso tempo ridotti ed esaltati. Nella finissima, puntigliosa, addirittura estenuante elaborazione tecnica, nel contrappunto di scheggiature e rabeschi, nei colori tersi e risplendenti (nell'intersecarsi smagliante di bianchi, di rosa e di rossi, di verdi e di blu, di bruni e di neri, come nei fitti reticoli e nelle cristalline sfaccettature, nelle materie ambiguamente preziose, fascinose e d inquietanti come gusci di granchi, corazze di coleotteri o squame di pesci) si articola una vita segreta, direi l'alternanza di due fondamentali rappresentazioni della condizione umana, come ho già detto: la cieca, coatta sopravvivenza fisiologica, vegetativa, nell'accettazione delle leggi naturali e dei sistemi organizzativi, e la rivolta, la tensione, espressa magari nella smorfia di un ironico, corrosivo sarcasmo, al riscatto, alla sia pur improbabile, disperatamente improbabile, catarsi. Ricorso a caso gli ansiosi, pigolanti uccellini di un quadro, raccolti nel nido, in attesa del cibo, cui la madre non può portare, chiusa nel becco, che una sigaretta: non ha trovato altro in un mondo ormai infestato dai miasmi di un disastro cui nessun ricorso ecologico può più porre rimedio. Ricordo gli insetti, ormai costretti a tramutarsi in pennini, in una disperata metamorfosi, e a tracciare sulla carta una squallidamente ordinata scrittura. E la povera gallina, dall'occhio tristissimo, ormai ridotta a macchina di "produzione" e "consumo": inghiotte cibo, tutto il cibo che le danno (non è da stupire che dal suo ventre aperto occhieggi perfino uno spaesato pesciolino), e fornisce uova, grosse uova crude, e perfino uova già fritte (si arriverà pure a questa "conquista" tecnologica). Così come non sorprende il rapporto, nella miseria dell'inurbamento e del consumismo ormai inevitabili, tra lo scarabeo e le scarpe da tennis, tra i pesci e il tubetto di colore acrilico: fin troppo facile sarebbe il riferimento all'universo kafkiano, al buio e al silenzio di un mondo senza speranza.
Così come fin troppo facile sarebbe il richiamo ad artisti che certamente Mammina ha "sentito" in modo particolare, da Klee a Duchamp, a Mirò; si tratta, mi pare, di supporti iconografici, di riferimenti sentimentali più che stilistici. Le sue fantasie e i suoi incubi hanno radici al di fuori delle più riconoscibili tipologie, in una emblematica e in una dimensione inventate e costruite, non dedotte e subite.

Diciamo pure che l'architettura e l'intrico mediterranei di forma e natura così come si articolano nelle opere di Mammina ricordano l'inquietante eredità della cultura surrealista (e d'altronde ogni artista è legato fatalmente da tanti fili
_________________________________________________________________________________.......................continua